Sentenza n. 6275 dell’8 marzo scorso della Corte di Cassazione con cui la magistratura si è espressa in tema del demansionamento e accertamento dei danni patrimoniali e professionali.
La Corte ha accolto il ricorso di una dipendente contro la società privata in cui lavorava per condotte demansionanti. Comportamenti ripetuti a partire dal 2013 e fino alla data di cessazione del rapporto di lavoro, per cui si richiedeva l’accertamento del danno professionale e patrimoniale.
La Corte di Appello di Napoli, secondo il principio della “ragione più liquida”, aveva rigettato la domanda proposta dalla lavoratrice, e rilevato la carenza dell’allegazione del danno subito a seguito del demansionamento da impiegata a ruoli di produzione.
A seguito di ricorso in Cassazione, la dipendente denunciava l’omissione della Corte territoriale nella valutazione del danno subito alla stregua di una valutazione presuntiva dei fatti in causa. Per la stessa ragione, i giudici della Suprema Corte accoglievano il ricorso.
La Corte evidenziava che il danno da demansionamento non è in ‘re ipsa’: seppur ai sensi dell’art. 2729 c.c., la prova del danno possa avvenire tramite il ricorso a presunzioni gravi, precise e concordanti, possono essere valutati quali elementi presuntivi anche “la qualità e la quantità dell’attività lavorativa svolta, il tipo e la natura della professionalità coinvolta, la durata del demansionamento e la diversa e nuova collocazione lavorativa assunta dopo la prospettata qualificazione”, caratteristiche specifiche dell’attività che erano state allegate nel ricorso introduttivo.
Le condizioni descritte erano di per sé suscettibili di valutazione e utilizzabili ai fini dell’accertamento del danno professionale.