La Corte di Cassazione, con sentenza n. 11547 del 4 giugno 2015, ha ritenuto che i ripetuti addebiti disciplinari non bastano ad integrare la condotta del c.d. “mobbing” qualora non siano pretestuosi, arbitrari e discriminatori, anche in presenza di un quadro clinico astrattamente riconducibile al mobbing (sindrome ansioso – depressiva).
Da tale elemento non può infatti trarsi la prova di una condotta persecutoria.
Gli ermellini hanno inoltre ribadito che per mobbing si intende “una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell’ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di prevaricazine o di persecuzione psicologica da cui può conseguire la mortificazione e l’emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisiospichico e del complesso della sua personalità”.
Fonte: Corte di Cassazione